domenica 22 maggio 2011

Dirigenti senza concorso e laurea. E il ministro Brunetta tace

Altro che lotta ai fannulloni, tornelli, stipendi bloccati, scatti di anzianità eliminati. In tutta questa foga anti-pubblici, il governo targato Berlusconi e in particolare il vulcanico «Torquemada» del pubblico impiego Renato Brunetta hanno lasciato crescere a piacimento larghe nicchie di privilegi, di cui nessuno pare accorgersi.

Un dato valga per tutti: attualmente tra i dirigenti della Pubblica amministrazione ci sono circa 37 lavoratori che non hanno neanche la laurea (con una forte presenza a Palazzo Chigi), titolo che pure sarebbe richiesto per ricoprire quel ruolo. Come mai? E ancora: nonostante il rigorismo del governo, oltre a non avere una laurea, alcuni dirigenti non hanno neanche affrontato un concorso pubblico: eppure la selezione per l’ingresso nella pubblica amministrazione sarebbe richiesta addirittura dalla Carta Costituzionale. Insomma, c’è un «ramo storto» (tanto per usare un’espressione cara al ministro Giulio Tremonti) che tutti fingono di non vedere, mentre si esercitano su rabbiose lotte agli sprechi.

Una di queste «storie fantastiche» sta avvenendo proprio in questi giorni. Dopo una procedura di qualche mese (dall’estate scorsa), oggi i 17 dirigenti dell’Ipi (Istituto per la promozione industriale) «inglobati» nel ministero dello Sviluppo economico hanno scelto le divisioni da dirigere, e in breve tempo formalizzeranno il contratto. Due di loro sono sprovvisti del titolo universitario, ma fa lo stesso: stanno con tutti gli altri. Il tutto si deve a un paio di paragrafi dell’ultima manovra estiva di Giulio Tremonti: quella che ha tagliato in modo lineare stipendi, spese ministeriali e degli organi costituzionali.

Dopo una sforbiciata generalizzata, il solito annuncio della soppressione di enti «inutili» (se ne parla da anni, ma qualcosa di «inutile» resta sempre), con tanto di lista allegata, 15 sigle. Appena qualche riga, che dispone di centinaia di lavoratori dimenticando tutte le norme che regolano l’ingresso nelle strutture pubbliche.

«Il personale a tempo indeterminato attualmente in servizio presso i predetti enti è trasferito alle amministrazioni e agli enti rispettivamente individuati - si legge nella legge - e sono inquadrati sulla base di un'apposita tabella di corrispondenza approvata con decreto del ministro interessato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione».

Insomma, scomparse le sigle, i dipendenti sono stati trasferiti «sic et simpliciter» nell’organico di altre strutture, in barba anche all’economicità dell’operazione annunciata.

Il bello (si fa per dire) è che l’Ipi era un’associazione di natura privatistica, iscritta alla Camera di Commercio, ma detenuta per il oltre il 90% dallo Stato e per il resto da Unioncamere. Di fatto era il frutto di una lunga serie di «mutazioni genetiche» prodotte dalla fine della Prima Repubblica. Dalle ceneri della vecchia Agensud (che però era di natura pubblica) con i suoi enti collegati nacquero altre entità, tra cui per l’appunto l’Ipi. Molte funzioni passarono al ministero dell’Industria, che utilizzò questi enti esterni (nel frattempo diventati giuridicamente privati) per attingere a nuove professionalità, rimaste escluse dagli organci della pubblica amministrazione per via dei blocchi delle varie Finanziarie.

Così l’Ipi diventò una sorta di «agenzia interinale» di Via Veneto, per governi di tutti i colori politici. Lì lavoravano parecchie figure «pescate» sul mercato. Mentre l’amministrazione pubblica «dimagriva» per effetto del pensionamento e del blocco del turn-over, continuava ad ingrassare questa area grigia, alimentata anche dalla longa manus della politica, abituata a distribuire posti e carriere anche nella Seconda Repubblica, senza il rispetto delle procedure pubbliche. Naturalmente nel trasferimento tra l’Ipi e il ministero dello Sviluppo c’è chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso. Alcuni funzionari, ad esempio, con quelle «tabelle di trasferimento» di cui parla la legge, hanno visto falcidiati i loro compensi. Sta di fatto, però, che tra i dirigenti i bene informati parlano di alcuni stipendi tra i 110mila e i 180mila euro annui. Molto di più di un dirigente laureato e assunto per concorso: certamente superiore a un direttore generale nel caso dei 185mila euro. 21 maggio 2011

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