Mutui in crescita, benzina alle stelle, cotone, grano e mais ai massimi di sempre. Presto l'inflazione potrebbe abbattersi anche sull’abbigliamento low cost, ultimo rifugio per le famiglie con portafogli sempre più magri
Dall’inflazione in ascesa alle tante stangate su benzina, mutui, alimentari e abbigliamento. Non è certo felice per i consumatori italiani il day after della svolta Bce. Una svolta obbligata che quasi tutti aspettavano da tempo. Senza il minimo desiderio che arrivasse veramente. La Banca centrale europea alza il costo del denaro di un quarto di punto portando il tasso di riferimento a quota 1,25%. Una mossa, dicono quelli che ben conoscono Jean-Claude Trichet e ne sanno interpretare le sfumature di linguaggio (“monitorare con molta attenzione”), preludio a nuovi interventi rialzisti verso quota 1,75. Un traguardo previsto per la fine dell’anno che potrebbe aggravare ancora di più la già precaria situazione italiana.
Le associazioni dei consumatori Adoc e Codacons sono già sul piede di guerra e se persino Confindustria si affretta a lanciare l’allarme sui costi aggiuntivi del credito alle imprese, significa che la stangata è davvero totale. Una stangata su cui pesano le decisioni del governo, dalle accise sulla benzina al mancato adeguamento del decreto a favore dei mutui. Una strategia che si sta rivelando fin dall’inizio in completa dissonanza con le esigenze poste dall’intervento della Bce.
La scelta europea, a modo suo, ha un che di epocale. Dopo quasi tre anni di politica espansiva, la banca centrale ha optato infatti per una mossa di segno opposto e agendo, particolare non da poco, in modo unilaterale. Ovvero senza che l’operazione costituisca una risposta alle scelte della Federal Reserve Usa. Il messaggio è chiaro. Per la prima volta dallo scoppio della crisi le priorità di Eurolandia sono cambiate. In principio si trattava di favorire un ricorso al credito divenuto sempre più difficile – a seguito dello shock di liquidità che aveva colpito gli istituti del Continente – attraverso la risposta del quantitative easing, la massiccia erogazione di denaro a beneficio del sistema. Una scelta logica ma non priva di effetti collaterali a cominciare dalla spirale inflazionistica. Un fenomeno, quest’ultimo, divenuto allo stato attuale sostanzialmente intollerabile.
L’aumento dei tassi è infatti solo la conseguenza ultima di una tensione internazionale sui prezzi che non accenna a diminuire e che potrebbe continuare ad avere effetti pesantemente negativi sull’inflazione per tutto il 2011. Sul banco degli imputati, naturalmente, c’è la crisi in nord Africa e in medio Oriente che da due mesi a questa parte sta facendo schizzare in alto il prezzo del petrolio. “I prezzi del greggio rimarranno a lungo su questi livelli”, ha dichiarato ieri il Fondo Monetario Internazionale. “L’economia sta entrando in una fase nuova nella quale il petrolio sarà sempre più scarso e i prezzi potrebbero salire ancora”. Giusto per dare un assaggio dei nuovi tempi oggi il prezzo del Brent (estratto nel Mare del nord) è salito oltre i 124 dollari al barile, il livello massimo degli ultimi 32 mesi. Ma a far paura sono anche le materie prime alimentari. Il Food Price Index della Fao ha raggiunto quota 236,8 in febbraio, il massimo livello mai raggiunto. A pesare sull’aumento delle derrate alimentare sono le catastrofi naturali (in particolare gli incendi dell’estate scorsa in Russia), ma anche le importazioni di granoturco dalla Cina, che stanno per raggiungere il livello più alto degli ultimi 15 anni.
L’aumento dell’inflazione, manco a dirlo, non interessa più soltanto le economie emergenti ma riguarda ormai in pieno anche le consolidate. E l’Italia non fa eccezione. A marzo, afferma l’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,4% rispetto al mese precedente segnando al contempo un +2,5% rispetto a 12 mesi fa. L’inflazione acquisita per il 2011 è pari all’1,8%, dato su cui pesano in modo particolare, guarda caso, i rialzi dei comparti energetici e alimentari. Nello spazio di un anno, il prezzo medio degli alimenti è cresciuto del 2,2%, ma il vero exploit viene proprio dal settore dell’energia con una risalita di oltre dieci punti percentuali. Nel dettaglio, i cosiddetti “regolamentati” – gas ed elettricità che basano i propri prezzi sul sistemi delle tariffe – hanno imposto un rincaro del 3,4%. Se si limita la rilevazione ai soli carburanti per il trasporto (benzina e gasolio), si arriva addirittura al +15%. Sul rincaro, certo, pesa il rialzo del prezzo del petrolio ma anche qualche decisione discutibile del governo.
Al centro della polemica, l’introduzione dell’ultima accisa da 0,9 centesimi per litro (Iva inclusa) per il finanziamento del Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Una manovra che, secondo l’Adoc si tradurrebbe in una spesa aggiuntiva annuale di 200 euro per ogni famiglia. Sommando i rincari di luce, gas e costo del denaro, si arriva a 716 euro. Già, il costo del denaro. Gira e rigira, infatti, si torna sempre al punto di partenza. Perché il rialzo dei tassi di interesse dovrebbe pur produrre un effetto positivo nel contrasto all’inflazione. Ma non risparmierebbe conseguenze negative sul fronte dei mutui.
Una prima stima ha provato a realizzarla il Codacons secondo il quale il quarto di punto targato Bce si tradurrebbe in un aumento annuale di 204 euro per i finanziamenti a tasso variabile. Mettendo in seria difficoltà almeno 30mila famiglie. Dall’associazione è partita quindi una richiesta ufficiale al ministro dell’Economia Giulio Tremonti per una revisione del decreto 132 del giugno scorso (fondo di solidarietà) che consenta un ampliamento delle “condizioni necessarie per poter sospendere il pagamento delle rate, a cominciare da quella di aver avuto un aumento di rata mensile di almeno il 20%”. In attesa che il ministro replichi, intanto, ci si può consolare pensando a chi sta peggio. E’ il caso dei Paesi a forte indebitamento privato, Spagna in primis, in cui il rialzo dei tassi finisce per penalizzare in modo particolare chi ha contratto finanziamenti a costo variabile. Non stupisce, in tal senso, la decisione della Banca d’Inghilterra di incassare il colpo dell’inflazione lasciando il costo del denaro alla risibile quota dello 0,5% con una scelta, tuttavia, destinata a mutare nel corso del tempo. Se è vero, come si mormora, che entro il 2012 a Londra i tassi saliranno e non di poco, il conto scaricato sui cittadini potrebbe essere salatissimo. Secondo l’ultima ricerca della società britannica Legal & General Investment Management (Lgim), un aumento dal 3,25 al 5,25% del tasso medio per un mutuo a 25 anni da 100mila sterline darebbe vita, per il 90% delle famiglie, ad un costo aggiuntivo pari a 2mila sterline annue. I nuclei familiari britannici che hanno sottoscritto un mutuo sono 11,2 milioni. Il loro debito totale vale 1.200 miliardi.
Ma tornando all’Italia non sono solo le famiglie a potersi lamentare. A temere l’effetto del rialzo sono anche le imprese, per le quali si preannuncia un inevitabile aumento del costo del credito. Secondo il Centro studi di Confindustria, entro la fine del 2012 le Pmi (piccole e medie imprese) dovrebbero mettere in conto un rincaro dell’1% sui finanziamenti inferiori al milione di euro. Per le piccole imprese (meno di 20 dipendenti) si parla di una crescita degli interessi passivi pari a 3,2 miliardi.
Tra tassi in salita e inflazione che non accenna a diminuire la scure dei prezzi potrebbe presto abbattersi anche sull’abbigliamento a basso costo, tradizionalmente un porto sicuro per i consumatori alla ricerca di occasioni. Da agosto 2010 il prezzo del cotone è cresciuto del 150% raggiungendo livelli record, mentre in Cina un’ondata di aumenti salariali ha aumentato in modo significativo i costi di produzione. Le grandi catene di distribuzione non escludono di trasferire parte degli aumenti sui consumatori finali. Intanto, per mettersi al riparo dagli aumenti, il maggiore fashion retailer americano, Gap, che da poco è approdato in Italia, sta stipulando contratti a lungo termine a prezzo fisso, mentre in alcuni indumenti si sperimenta un mix di cotone e fibre artificiali come il rayon. Altri marchi hanno scelto di trasferire la produzione in Bangladesh e nel sud dell’India. La settimana scorsa la catena svedese H&M, leader assieme a Inditex (Zara) nel segmento del “fast fashion”, ha comunicato profitti in discesa del 30% per il primo trimestre del 2011 a causa della diminuzione dei margini. Per Inditex l’utile trimestrale è salito del 14%, ma solo perché la società ha deciso prima di altri di trasferire una parte dell’aumento dei costi ai clienti. H&M ha deciso di resistere: l’immagine “cheap & chic” è il suo maggiore asset. Ma nessuno è pronto a scommettere che lo sarà ancora a lungo.
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