martedì 8 marzo 2011

Benzina, il governo guadagna sulla stangata

Una riduzione automatica dell’accise in caso di impennata del prezzo della benzina. E’ ciò che impone una legge dello Stato. Ma in assenza di un decreto attuativo la normativa non può essere applicata. E così a farsi carico degli aumenti sono solo i cittadini.

Alla fine, non dubitiamo, Giulio Tremonti saprà cogliere il lato positivo della vicenda. E poco importa che il risvolto ultimo rappresenti un beneficio per le casse dello Stato costituendo, al contrario, una vera e propria stangata sulle tasche del consumatori. Il prezzo della benzina segna un nuovo record nel contesto di una corsa al rialzo che, almeno per ora, non sembra trovare ostacoli. Per una ripresa debole già fortemente contrastata da un’inflazione crescente, cui il prezzo dei carburanti contribuisce in modo sostanziale (il Casper, il comitato di cui fanno parte tra gli altri anche Adoc e Codacons, parla per quest’anno di 1.205 euro di spesa aggiuntiva per ogni famiglia), è un’autentica disgrazia. Ma per le casse del governo, già corroborate da una pressione fiscale da primato, ecco spuntare all’orizzonte l’ennesima occasione per una nuova “raccolta” extra. Anche se la legge, ed è questo l’aspetto più disturbante, prevederebbe in questo caso una risposta anticiclica. Ovvero, per semplificare, l’esatto contrario di quel che accade oggi.

Tutto ruota attorno alla celebre “accise mobile trimestrale”, l’unico strumento, spiega oggi Confesercenti, in grado di venire incontro, sebbene solo parzialmente, alle esigenze più pressanti dei cittadini e dei distributori finali (i gestori delle pompe di benzina, per intenderci). Lo schema, elaborato all’epoca dell’ultimo tormentato Governo Prodi, prevede un abbassamento delle imposte sui carburanti al dettaglio in proporzione al loro aumento. Lo sgravio è limitato (nel 2007 si trattò di appena 2 centesimi al litro) ma è comunque gradito. Un po’ per il principio – allentare la pressione sui cittadini quando il mercato non è favorevole – un po’ per la frenata che l’iniziativa imporrebbe alla riduzione dei consumi, principale problema per i gestori ultimi che, come noto, guadagnano sulla quantità venduta e non sul prezzo della suddetta.

Un meccanismo appropriato, insomma, che la legge 133 del 2008 ha reso anche automatico. Peccato però che l’automatismo stesso resti tale solo sulla carta visto che il provvedimento non può essere attuato in assenza di un decreto del Ministero dell’Economia. Tradotto: in assenza di un intervento ad hoc la pressione fiscale resta invariata e i prezzi possono crescere senza limitazioni esterne. Come già fanno ora, del resto.

Cifre alla mano la situazione si conferma grave. Dagli 1,568 euro di un litro fissati da Esso agli 1,548 praticati dalla Q8, evidenzia l’ultima rilevazione della Staffetta Quotidiana, il costo della benzina tocca nuove vette attestandosi a un valore medio che quasi non ha precedenti (1,556 euro, che diventano 1,6 in Sicilia dove le tasse sono superiori, contro gli 1,453 del gasolio). Per ritrovare numeri simili occorre risalire alla tremenda estate del 2008 quando il barile di petrolio registrò il record storico di 147 dollari. Oggi siamo ancora sotto di 40 dollari ma il contesto non aiuta. Rispetto a due anni fa, tanto per cominciare, facciamo i conti con un cambio più sfavorevole rispetto al dollaro. Come se non bastasse, inoltre, la crisi libica ha imposto di fatto una contrazione del 75% sulla produzione di Tripoli riducendo quindi l’offerta disponibile.

Al netto della speculazione, insomma, tutti i “fondamentali” di mercato giustificano la risalita lasciando ai produttori il compito di calmare gli animi dei trader. Gli Stati Uniti si dicono pronti a intaccare le proprie riserve per ripianare il gap dell’offerta. Una mossa che dovrebbe avere soprattutto una funzione psicologica placando l’istinto killer che caratterizza oggi gli scambi sui futures. Ma che difficilmente potrà ispirare gli altri grandi consumatori. Gli americani possono contare oggi su una cassaforte virtuale di 19 miliardi di barili estraibili, mentre l’Arabia Saudita, prima nella classifica mondiale delle riserve, ne possiede 264. L’Italia, 52° con 423 milioni, non potrebbe coprire nemmeno i consumi annuali. La Libia, manco a dirlo, resta il nostro principale fornitore. 7 marzo 2011

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